Il diritto dell’alienato
È l’argomento del giorno e tante se ne stanno dicendo: le mamme-forno, i doppi padri o le doppie madri, i diritti, i doveri e l’amore.
A detta di molti, per sublimare l’atto d’amore verso la vita, verso un’altra vita, è lecito chiedere a una donna di fare da forno per 9 mesi. Mi sta bene la premessa, non la soluzione; perché per amare la vita ci sono altri modi: trascorrere del tempo in un orfanotrofio, per esempio, o trascorrere le vacanze in un villaggio dell’Africa per curare, giocare, amare bambini meno fortunati di quelli che si vedono nelle pubblicità.
Ma ognuno fa le sue scelte, ognuno ha il “diritto” di esprimere il proprio amore come più gli piace: ammettiamo pure che una persona adulta, consenziente, sebbene “in stato di bisogno” decida di sottoscrivere questo contratto di compravendita: un essere umano, verso un corrispettivo in denaro (e non intendo, qui, trattare delle numerosissime implicazioni, in punto di fatto e di diritto che scaturiscono, che scaturirebbero, da un contratto del genere).
Qualcuno mi spieghi, però, dove esattamente si pone il diritto dell’ ”alienato”: perché io ho visto con i miei occhi neonati in lacrime calmarsi solo tra le braccia della mamma e riconoscere la voce e le mani di chi li ha portati in grembo per 9 mesi. Ammettere la “normalità” dell’allontanamento del neonato dalla mamma e non aver dubbi sul fatto che non ci saranno ripercussioni sullo sviluppo del bambino e dell’uomo che sarà, significa letteralmente prendere gli ultimi 40 anni di studi sulla psicologia prenatale, buttarli nel cesso e tirare lo scarico.